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IL GIORNO CHE AVREI VOLUTO VIVERE

15 marzo 44 a.C. / Io, Cicerone, felice per quei pugnali

di Alessandro De Nicola

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25 agosto 2009

Quel giorno io c'ero. Sì, le Idi di marzo del 44 a.C. ero presente a Roma anche se non nella Curia del Senato. Io, Marco Tullio Cicerone, cavaliere di Arpino, pater patriae, posso dirvi tutto di quel giorno in cui fu ucciso Cesare. Caio Giulio Cesare, un mio amico; in fondo ci volevamo bene, lui era il migliore di tutti ed eccelleva in qualsiasi cosa. Era un letterato di stile ineguagliabile e lo scrissi anche al mio amico Cornelio Nepote: «Chi è più acuto o ricco nei concetti? Chi più ornato o elegante nell'esposizione?».

Un uomo d'arme geniale e coraggioso, mai vinto in battaglia. Un leader politico carismatico e tenace, un signore di gusti raffinati, generoso, salutista, spiritoso, galante con le signore - «marito di tutte le mogli», lo sfottevano i suoi legionari - e magnanimo. Già, la clemenza di Cesare, che perdonava i suoi nemici. Perdonò anche me dopo che mi ero schierato con Pompeo, nonché Marco Giunio Bruto e Caio Cassio Longino, che divennero i capi dei congiurati. E questa magnanimità era però indice della sua superbia. Prendeva in giro chiunque: il povero Catone l'Uticense ancora ricorda come sghignazzò il Senato quando le lettere erotiche di sua sorella, che lui pensava essere messaggi cospiratori, vennero declamate da Cesare.

Caio Giulio non si accontentava di essere il Primus di Roma: Roma doveva dominare il mondo e questo per la sua gloria personale, la sua dignitas, da lui invocata quando arringò i suoi legionari prima di passare il Rubicone. La dignitas di chi era infallibile, di chi poteva dunque diventar tiranno, oppure utilizzare personaggi discutibili se strumentali ai propri fini, come i pessimi Lucio Catilina e Publio Clodio, l'artefice del mio esilio; di chi, insomma, io non potei a un certo punto non odiare.

E Marco Bruto, Marco diletto cui dedicai tre opere, filosofo stoico col vizio dell'usura, discendente di quel Bruto che abbattè la monarchia a Roma, figlio di Servilia, amante di Cesare il quale - si mormorava - forse ne era il padre illegittimo, non poteva sopportare la tirannia, il vulnus agli antichi mores e così decise di entrare in combutta con Caio Cassio, Decimo Bruto - un traditore, favorito e protetto da Cesare che lo aveva addirittura nominato erede in seconda dopo Ottaviano -, Caio Trebonio - voltagabbana enigmatico e torvo - e gli altri per uccidere il nuovo re di Roma.

Dopo varie incertezze, si optò per il 15 di marzo. Nessuno m'informò di nulla, anche se io fiutavo qualcosa nell'aria e perciò non mi presentai al Senato. Calpurnia, moglie di Cesare, aveva avuto infausti sogni premonitori e lo pregava di non andare. Pure gli aruspici erano stati negativi e Cesare stava per annullare la seduta quando Decimo Bruto, sempre lui, il devoto Decimo, venne inviato a convincere il divo Giulio. Non si può offendere il Senato, devi venire.
E così Cesare andò, senza scorta - ancora una volta la sua superbia e la sua guasconeria -, non lesse un biglietto che lo avvisava della congiura passatogli nella lettiga dal retore Artemidoro né ascoltò un indovino che gli prediceva l'evento. Cesare non era superstizioso: era stato un Pontifex Maximus che poco credeva agli dei, ma molto all'utilità della religione in politica.

Il resto lo sapete: quell'odioso energumeno di Marco Antonio fu tenuto fuori dal Senato da Trebonio con una scusa qualunque. Il viscido Tullio Cimbro si avvicinò a Cesare con una supplica, lo tirò per la toga e Servilio Casca sferrò la prima pugnalata. Caio Giulio si difese, conficcando uno stiletto nel braccio di Servilio - nomen omen - poi, mentre stava per soccombere, vide Marco Bruto e si coprì per spirare con dignitas pronunciando la famosa frase «Tu quoque, Brute, fili mi». Grandezza di un uomo: pure morendo disse qualcosa di memorabile per tutte le generazioni future, fortuna che con tutta la mia eloquenza io non riuscii ad avere e la cosa ancor mi rode.

I congiurati non colsero l'attimo, io - devo ammetterlo- gioii del tirannicidio e scrissi a Minucio Basilo, uno dei congiurati: «Tibi gratulor, mihi gaudeo», ossia «Mi congratulo. Io sono felice». Quel cane di Marco Antonio, sfuggito alla morte per la misericordia di Bruto e travestito da schiavo, riprese tuttavia in mano la situazione (non certo grazie alla bella orazione che gli mise in bocca il britanno Shakespeare) e alleatosi con Ottaviano - il cortese, lucido, spietato futuro Augusto - sconfisse definitivamente Bruto e Cassio a Filippi, non senza essersi ricordato di far uccidere prima me...

Ora, nella calma dei Campi Elisi tante volte mi sono chiesto, sine ira atque studio: e se le cose fossero andate diversamente? Se Cesare avesse ceduto alle insistenze di Calpurnia?
Sarebbe cambiato poco. Il divino avrebbe forse sconfitto i Parti, fatto costruire il canale di Suez e quello di Corinto (sì, era nei suoi piani), debellato un po' di tribù germaniche. Ma aveva già 56 anni e politicamente cosa avrebbe potuto fare di meglio di quello che poi successe, cioè designare Caio Ottaviano come erede? La via del Principato era ormai segnata.
  CONTINUA ...»

25 agosto 2009
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